Cosa significa esplorare l’ultima frontiera dell’arte? Per Marina Abramovic il rapporto tra artista e pubblico nasce da una relazione reale, dove spetta al primo scatenare le emozioni del secondo, oltrepassando I limiti del corpo e le possibilità della mente.
Nasce così laperformance art, una quarta dimensione dell’arte e, allo stesso tempo, l’abbattimento della quarta parete del teatro. Oltre 100 opere tra dipinti, video, performance e installazioni arrivano così in mostra dal 21 settembre al 20 gennaio a Palazzo Strozzi a Firenze.
“The Cleaner” è insieme la prima grande retrospettiva italiana dell’artista e la prima mostra monografica dedicata ad una donna a Palazzo Strozzi. Nella perfezione geometrica del palazzo rinascimentale troveremo una selezione dei lavori più significativi della performer serba, arricchita dalla riproposizione – effettuata da artisti selezionati per l’evento – delle esibizioni che più l’hanno resa celebre in oltre 50 anni di carriera artistica: dagli anni Sessanta ai Duemila. Abramovic è riuscita a chiudere nella contemporaneità un cerchio iniziato con la catarsi del teatro greco, dove il dolore rappresenta il sacrificio di una rinascita, della comprensione, della coscienza. Rimane emblematico l’imprinting che Marina ricevette dal padre, una lezione paradigmatica per il suo lavoro.
L’artista, che aveva 14 anni, chiese al genitore di comprarle dei colori. Lui si presentò con un amico il quale cominciò con il tagliare a caso un pezzo di tela. Poi, una volta steso a terra, vi gettò sopra colla, sabbia, bitume, colori vari dal giallo al rosso. Dopo aver cosparso il tutto con la trementina, collocò un fiammifero al centro della composizione, lo fece esplodere e disse: “Questo è il tramonto”.
La mostra di Palazzo Strozzi trova una sua fondamentale caratteristica nelle re-performance, che si alterneranno ogni giorno all’interno dell’esposizione, rendendo Palazzo Strozzi uno spazio mutevole e in costante trasformazione, con Imponderabilia, Cleaning the Mirror e Luminosity negli spazi del Piano Nobile e con The Freeing Series (Memory, Voice, Body) nella Strozzina.
Per mantenere vive le sue opere, che altrimenti esisterebbero solo come documentazione d’archivio, Marina Abramović usa infatti la re-performance come metodo e pratica di lavoro, come testimoniato dal celebre ciclo Seven Easy Pieces (2005) realizzato al Guggenheim Museum di New York, in cui ha replicato sette storiche performance di artisti come Valie Export, Vito Acconci, Bruce Nauman, Gina Pane, Joseph Beuys e lei stessa.
Attraverso il Marina Abramović Institute for the Preservation of Performance Art (fondato nel 2010) e con il cosiddetto “Abramović Method”, sviluppato nel corso della sua carriera come pratica fisica e mentale per realizzare una performance, l’artista ha inoltre posto le basi per oltrepassare il carattere effimero delle sue opere e reinventare l’idea stessa di performance nel XXI secolo.
Coinvolgendo spettatori e performer diversi, la performance stessa cambia rinnovandosi nei diversi contesti in cui viene replicata (Le immagini possono essere soggette a copyright).